Etnocentrismo è il termine tecnico che designa una concezione per la quale il proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa e tutti gli altri sono classificati e valutati in rapporto ad esso.
Questa la definizione coniata nel 1907 da uno dei primi antropologi statunitensi, William Summer, nella sua opera Folkways.
Classificare gli altri in rapporto al proprio gruppo significa applicare agli altri connotazioni ricavati dalla propria esperienza e dal proprio modo di vita, senza chiedersi se siano appropriati per descrivere il modo di vita altrui. Valutare gli altri in rapporto al proprio gruppo significa applicare a essi i valori che orientano i giudizi all’interno del proprio gruppo di appartenenza.
Nell’ambito delle scienze sociali dunque con etnocentrismo si intende generalmente un atteggiamento per cui i valori derivati dal proprio contesto culturale vengono acriticamente applicati ad altri contesti culturali in cui sono operativi valori diversi.
Attraverso questo atteggiamento l’individuo ha sempre difeso, più o meno consapevolmente, la sua appartenenza al gruppo, ad un modello socio-culturale. In sintesi, il suo appartenere al mondo in quelle determinate condizioni storiche.
L’etnocentrismo nella sua accezione naturale indica un generico, istintuale bisogno dell’uomo di garantirsi una identità sociale, come membro di uno o più aggruppamenti (di classe, di casta, di gruppo, tribale, etnica, nazionale ecc.). Quando assume le funzioni di ideologia, l’etnocentrismo diventa un’idea forza che riempie cuore e cervello e spinge a tradurre la propria coscienza in opere d’azione organizzata (nazionalismo):
la difesa dell’identità propria diventa inevitabilmente aggressione dell’identità, ritenuta contrapposta, dell’altrui gruppo.
La nozione di etnocentrismo non è facilmente dissociabile da quella di pregiudizio e quest’ultimo può essere di volta in volta etnico, sociale, culturale, religioso, sessuale. In più casi questi pregiudizi si intersecano e si sovrappongono dando luogo a una quantità notevole di atteggiamenti che si manifestano sia a livello individuale sia a livello collettivo. Fin dalle origini le differenti culture strutturano i propri campi di conoscenza in modi assai diversi: i dati che appaiono irrilevanti in una cultura diventano rilevanti per l’altra, fino ad investire le categorie conoscitive e a dar luogo non solo a linguaggi, ma a differenti tipi o stili di conoscenza.
I moderni movimenti migratori, il loro impatto sulla società, evocano sentimenti di superiorità che hanno portato ad assumere la propria cultura come parametro di riferimento per giudicare, uniformare e addirittura sopprimere tutte le altre culture.
Nel quadro di queste tendenze la questione attuale delle minoranze integrate ha assunto un’importanza cruciale sia nel dibattito politico che come tema di interesse sociale e scientifico. Non a caso a tutt’oggi le politiche d’immigrazione diventano oggetto di discussione e di revisione, come dimostra ciò che è avvenuto in Italia recentemente, a testimonianza della difficoltà di affrontare il problema anche per paesi in cui l’immigrazione è parte costitutiva della storia e dell’immaginario collettivo. Se in campo politico-istituzionale si discute come regolare i flussi d’immigrazione, in campo sociale le politiche di sostegno riguardano il reperimento di alloggi, la questione dell’istruzione, il sostegno all’occupazione, i problemi relativi all’assistenza socio-culturale e l’associazionismo.
Si tratta anche di leggere il fenomeno nuovo e più incisivo che sottintende spesso questi cambiamenti: cioè la difficile coesistenza delle nuove realtà demografiche e culturali nelle crescenti società multietniche. Perché di tutti i fenomeni che questi processi mettono in moto uno sembra più ampio, sebbene di antica data: la mobilità delle genti e la convivenza fra più realtà etnico-culturali.
Siamo di fronte al “sesto continente” come lo definiscono gli esperti, un movimento che va dai paesi della fame a quelli della ricchezza. Un’emigrazione biblica e inarrestabile, simile a quella che un secolo fa riempì l’America di Europei. Nel giro di pochi decenni i Paesi, segnatamente quelli europei, diventeranno sempre più multirazziali. La società di domani, dice il sociologo Franco Ferrarotti, sarà multietnica e quindi anche multirazziale. Dobbiamo ormai capire che il mondo è diventato unitario e che l’umanità è toccata nello stesso momento da tutto ciò che accade.
In queste condizioni, risulta di gran lunga più opportuno tentare di gestire il fenomeno dell’immigrazione che non subirlo. Uno degli elementi cardine della gestione è l’integrazione degli immigrati e la velocità con cui essa può realizzarsi. Le diverse velocità di integrazione fanno sì che non si possa elevare il flusso di immigrati da accettare ogni anno oltre un certo limite, che è quello della società ospitante di accogliere e trattare gli immigrati come cittadini. L’integrazione economica dei lavoratori che immigrano individualmente è molto rapida, grazie al fatto che gli immigrati vanno ad occupare lavori spesso rifiutati dagli autoctoni. L’integrazione logistico-territoriale richiede invece molti anni, perché predisporre case, scuole, trasporti e ospedali richiede comunque tempo. Assai più lente sono l’integrazione socioculturale e quella politica.
Daniela Siano