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Onmic PTCO – La sofferenza: una realtà con cui convivere

Ciò che accomuna tutti gli esseri umani è il sentimento della sofferenza, generato da una condizione di dolore.

Sostanzialmente, le forme che la sofferenza può assumere sono quella fisica e quella mentale. Nel primo caso, si parla di una sofferenza del corpo che può essere placata tramite una terapia farmacologica o anche direttamente dal nostro corpo tramite la liberazione di ormoni che hanno effetti antidolorifici (endorfine). Al contrario, la sofferenza dell’anima, quella interiore, è molto più difficile da combattere poiché è dovuta ad uno stato interiore dell’individuo che altera i suoi sentimenti, risultando a volte contraddittori.
Inoltre, può sfociare in un disagio depressivo e talvolta nello sviluppo di una concezione negativa, o per meglio dire, pessimistica dell’esistenza umana. Poiché la triste e amara verità è che non esiste un modo per “curarla”, se non combattere con se stessi.
Quando una persona soffre, il più delle volte, tende ad isolarsi, generando altra sofferenza: la solitudineC’è chi sostiene che la solitudine sia curativa per ritrovare se stessi.

E se non esistesse un se stesso? L’uomo, in questo caso, passerebbe tutta la sua miserabile esistenza a tentare di capire chi è, per poi scoprire che non è nessuno, se non chi la società gli impone di essere. Ed ecco che l’inesistenza di una propria identità diventa la vera fonte della sofferenza. Non conoscere se stessi, è il peggior enigma esistenziale che esista.
Con gli anni, ogni individuo sviluppa una certa personalità, senza rendersi conto che è condizionato dal rapporto con gli altri. Pertanto, sia la solitudine che il rapporto con gli altri sono distruttivi per l’uomo. Dunque l’essere umano è condannato alla sofferenza e cercare incessantemente di capirne il motivo lo può portare solo ad impazzire.
Siamo portati a colpevolizzare Dio, bensì il suo è un atto d’amore: solo conoscendo la sofferenza, possiamo conoscere la felicità e soprattutto coglierne l’essenza.
È inevitabile che la sofferenza renda l’uomo debole e ciò può diventare un problema nell’odierna
società. Non tanto per la teoria del darwinismo sociale, secondo cui i più forti prevalgono sui più deboli ;
più che altro perché la società dimostra un certo rifiuto culturale per la malattia, il dolore, la vecchiaia e la morte.
Al giorno d’oggi, regna una visione idealizzata dell’uomo, che non quella dell’eroe o del santo come era un tempo, bensì del giovane, del bello, del forte.
Ormai, “essere belli è un dovere” ed ogni insignificante difetto fisico appare una vergogna. I mass media propongono continuamente metodologie e strumenti per abbattere le decadenze fisiche; come i capelli bianchi, le rughe, la cellulite, le smagliature e tanto altro. Ovviamente ciò non fa altro che alimentare quella che è un’ossessione per la bellezza e al contempo un’esasperazione per la vecchiaia e la malattia. Ne consegue il tabù della morte con le
sue più tragiche conseguenze.

Gli avanzamenti della tecnologia, nonostante efficienti, hanno generato nel tempo una mentalità
di onnipotenza, poiché essa insinua l’idea di un potere senza limiti. I progressi farmacologici e chirurgici, rappresentano una sfida nei confronti della morte. L’uomo concepisce la morte come una sconfitta e pertanto cerca di evitarla ed allontanarla il più possibile. Ma come ben sappiamo, malattia e morte sono realtà alle quali non si può sfuggire. Dunque con questi ideali fasulli, è ovvio che la sofferenza non risulta normale e legittima
all’esistenza.
Per timore, per paura ma anche per rabbia, si cerca di tenerla nascosta in un cassetto. E la paura che quel cassetto sia aperto, diventa un incubo.
Paradossalmente, per quanto possa sembrare sconcertante, soffrire fa sentire vivi ed è questo ciò che conta. Talvolta, però, non si è disposti a pagare a tale prezzo la vitalità che tanto amiamo. Così, finisce per essere calpestata dal desiderio incessante di quell’infinito istante, in cui la barriera che separa la terra dal cielo viene abbattuta.

Claudia Cerrato

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