Gerardo Magliacano: il dovere di testimoniare, di denunciare, di raccontare

Docente di storia e letteratura,  laureato in estetica , da vent’anni scrive libri. Salernitano per nascita e formazione, 

ha lavorato per più di un decennio in Lombardia,dove ha pubblicato le sue prime opere di musicologia e un romanzo d’inchiesta sull’Unità d’Italia. Nel 2016 è tornato in Campania, per favorire le sue attività di studioso e di docente, ma soprattutto l’impegno nella tutela del territorio: con “TERRO(M)NIA. Ritorno alla mia terra” e “Servi della gleba” porta avanti il progetto “MeLo adotto”, con il ricavato delle vendite dei libri ho finanziato la piantumazione del melo (annurca) per la riforestazione delle terre mortificate dalle ecomafie.

Salve Gerardo, benvenuto nel nostro spazio. Grazie per aver accettato la nostra intervista.

 Salve a tutti è un piacere essere qui con voi, vi ringrazio per l’attenzione e il tempo che mi dedicate.

Che cosa significa oggi essere uno scrittore?

Che cosa significhi oggi, non lo so. So cosa rappresenta per me; cerco di dargli un senso attraverso la mia opera. In fondo, sono le opere che danno senso  all’autore. Ad ogni modo, mi sono fatto una certa idea di ciò che dovrebbe significare “essere uno scrittore”, e te lo dico con le parole di Ignazio Silone: «scrivere  [è] assoluta necessità di testimoniare […] Lo scrivere  non è stato, e non poteva essere […] un sereno godimento estetico, ma la penosa e solitaria continuazione di una lotta».  Per quanto mi riguarda, non è né un privilegio né un piacere, farei volentieri una passeggiata invece di stare ore e ore a battere sui tasti di una tastiera. Scrivere, per me, è un dovere, il dovere di testimoniare, di denunciare, di raccontare.

Quando hai scoperto o capito che dovevi scrivere?

Ho iniziato da ragazzino a scrivere canzoni, poesie, qualche racconto, il mio primo romanzo… ma all’epoca volevo scrivere, nel senso che ero spinto dal desiderio, da velleità, quelle di fare il cantautore, lo scrittore… si trattava di meri sogni adolescenziali. Ho scoperto invece che dovevo scrivere quando ho pubblicato “TERRO(M)NIA”. In quel libro ho avvertito l’incombenza, la responsabilità di raccontare la mia terra: la Campania Felix ridotta a una terra dei fuochi; la mia Valle che stava e sta rischiando di essere sommersa da reiterate inondazioni di cemento, un bel tappeto per nascondere chissà cosa! Ho capito che dovevo scrivere quando ho appurato che dell’Annurca non rimaneva neanche la memoria e che la mia gente aveva smarrito la sua coscienza di popolo. Ho capito che avevo il dovere di alzare quel tappeto di cemento, quella lastra marmorea e vedere, sentire se c’è ancora un cuore che pulsa o c’è dell’altro.

Ti chiedo una tua definizione del concetto di letteratura.

Letteratura per me è raccontare, ovvero ‘darne conto’, un ‘fare i conti’. Se vuoi nel senso popolare del termine, il racconto inteso come ‘lo cunto’, “Lo cunto de li cunti” direbbe Basile, sia nella sua accezione letteraria sia aritmetica. Purtroppo, noi contemporanei abbiamo scisso il sapere in tante branche, in ‘quanti’, disperdendo, in tal modo, le energie,  dimenticando che, invece, si tratta di un unico atto, di un atomo compatto. Abbiamo separato l’ambito umanistico da quello scientifico. Ti faccio un esempio. Nelle scuole,  Einstein l’abbiamo relegato in un determinato settore di studio, la fisica, mentre andrebbe studiato, innanzitutto, in filosofia, anzi, ti dirò di più, in letteratura. Ti dicevo in precedenza che la letteratura è, sostanzialmente, raccontare: se lo intendessimo, ritornassimo come i classici a intenderlo nel suo significato etimologico –    ‘re-ad-contare’ – capiremmo che la letteratura non fa altro che affermare un procedimento scientifico, matematico, logico. La letteratura ci riporta all’origine del sapere, ovvero nel tempio del Logos.

Chi sono i tuoi maestri?

Sicuramente Silone, che ho citato prima, ma anche Leopardi, Tolstoj, Steinbeck… e soprattutto mio padre e i miei alunni. Concedimi, però, di precisare l’insegnamento che ho ricevuto da questi due ultimi maestri che ti ho nominato, altrimenti rischiamo di banalizzarli, di sporcarli, insozzarli di scontata retorica. Da mio padre ho imparato a declinare in ogni sua forma il verbo ‘dovere’ e di non concedermi mai il lusso dell’istintività, ma ponderare sempre ogni cosa. I miei studenti, invece, tengono viva e attiva la mia curiosità. Socrate diceva che una “una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta”, e il motore della ricerca è sicuramente la curiosità. A scuola capisci che c’è poco da insegnare, ma molto, troppo da imparare: non è l’infinito sapere, ma la smisurata ignoranza che mi mette ansia, un po’ come per il “Galilei” di Brecht.  Credimi, dalle loro domande, dalle loro curiosità, scaturiscono grandi insegnamenti, che mi spingono ogni giorno a imparare cose nuove, a fare i conti con la mia e la nostra ignoranza e tentare di disinnescarla, che non faccia troppi danni.  

In che modo il tuo mondo interiore chiede di esprimersi e in che modo lo senti e lo attui attraverso la scrittura?

Più che il mio mondo interiore, è il mondo esteriore, è quanto succede lì fuori che mi chiede di esprimerlo. Penso che viviamo in un’epoca in cui la “necessità interiore”,  quella che,  agli inizi del secolo scorso, costringeva, spingeva  artisti e poeti alla composizione, a dar vita alle diverse forme di espressione, oggi non ha più nessuna valenza. Oggi dovremmo parlare di “necessità esteriore”: da una parte c’è un nevrotico bisogno di apparire, come diceva Bauman, siamo passati dall’essere “martire a eroe, da eroe a celebrità”; dall’altra, invece, ci sono  scrittori e artisti che sono spinti dalla necessità  di raccontare, di denunciare  la realtà  che ci circonda. Per quanto mi riguarda, non corro il rischio di diventare una celebrità, anzi per le cose che scrivo c’è una volontà che vorrebbe mettermi a tacere.

 

L’Italia è ancora un paese di lettori?

“L’Italia è – e rimane –  un paese di santi, di poeti e navigatori. I lettori, nel Bel Paese, si sono quasi estinti, ne rimangono pochi esemplari. Gli scrittori invece sono vivi e vegeti. E purtroppo neanche gli scrittori leggono: molti scrivono, ma leggono poco. Assistiamo a fenomeni,  autori di best seller che confessano impunemente di non aver letto mai un libro. Siamo ormai alla farsa. Inoltre, se analizzassimo con più attenzione le classifiche dei libri più venduti, ci renderemmo davvero conto che di lettori, veramente tali,  sono pochi, troppo pochi. Tieni presente, poi, che un libro venduto non è automaticamente un libro letto. Gli editori badano alle vendite, uno scrittore serio si preoccupa non certo delle copie vendute, ma di quanti hanno letto la sua opera. E se a tutto questo, aggiungiamo anche l’analfabetismo funzionale che si è attestato su cifre allarmanti, la situazione è drammatica. In Italia è a repentaglio la sopravvivenza della letteratura, la quale esiste solo finché ci saranno lettori, quelli con la “L” maiuscola. Un popolo che non legge rischia di fare rima con… si capisce, no? E di pastori e lupi in giro ce ne sono troppi

Che cosa si potrebbe fare per appassionare le persone alla lettura?

Devono intervenire le istituzioni. Prima di tutto è compito della famiglia. Denuncio in “Servi della gleba” che il verbo leggere non è una priorità per i genitori. Si svezzano i figli, s’insegna loro a camminare, a parlare, ad andare in bicicletta, a pedalare, a coniugare altri verbi, ma  leggere non rientra nell’educazione da impartire ai figli. Si lascia il compito ben volentieri alla scuola, che ha altre priorità, altre incombenze. L’amore per la lettura per un ragazzo è un incidente di percorso.

Aldo Palazzeschi scrisse: “Gli uomini non domandano più nulla dai poeti” Quanto può essere vera questa affermazione?

Uno dei mali della nostra epoca è radicato in questo malcostume: il non chiedere più nulla alla poesia.  L’uomo si è ridotto a essere la custodia di se stesso, un involucro fatto di carne ed ossa. Spendiamo le nostre risorse, il nostro tempo per prenderci cura del contenitore senza preoccuparci del contenuto. Questo non lo dice Magliacano ma i dati: non esistono case senza uno specchio, ma esistono case senza libri; non esistono comunità senza supermercati e parrucchieri, ma esistono quelle senza librai e biblioteche. C’è una frase bellissima di Thoreau: “ci si preoccupa di più di portare vestiti alla moda , o per lo meno puliti e senza toppe, che d’essere a posto con la coscienza”. Ciò di cui gli uomini hanno bisogno oggi, ciò che desiderano non è merce da poeti.  E quei pochi poeti che sono sopravvissuti, lo sono perché hanno ridotto la poesia in merce.  In fondo, come diceva Montale: “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti […] Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.

La letteratura può ancora salvare il mondo?

C’è ancora qualcosa da salvare? Oggi, siamo ridotti a dover salvare la letteratura dal mondo!

Come nasce la tua ultima opera “Canto è [R]Esistenza”?

Le mie opere nascono da un’esigenza molto semplice, rappresentare la realtà, il contesto in cui viviamo. Più che ritratti, sono delle radiografie, una sorta di risonanza magnetica con contrasto della società che ci con-tiene, per mezzo della quale siamo tenuti insieme. Mi spinge l’urgenza di andare oltre l’inganno della superficie e dei sintomi, per risalire direttamente alle cause, alla malattia. Una sorta di eziologia socio-antropologica per diagnosticare il morbo dei tempi che corrono.  Anche  “Canto è [R]Esistenza” nasce dagli e con gli stessi presupposti. Però in essa ho cercato di spingermi oltre, di scavare più a fondo per rintracciare quel ‘vero poetico’, potremmo dire manzoniano, che muove la storia e condiziona la contemporaneità. Mostrare il sentimento del (nostro) tempo, alla stregua di Ungaretti; percepire lo spirito che aleggia su di esso.  In fondo, le nostre sensibilità, le nostre coscienze, il nostro attivismo sono vincolati allo spirito del tempo. E allora, l’unico strumento efficace per scovare il vero poetico, lo spirito, il sentimento del nostro tempo è la poesia, il verso, il canto.

Quali sono le idee che vuoi esprimere in questa tua opera?

Come ti dicevo, l’esigenza è quella di esprimere il sentimento della nostra epoca. Un sentire che oggi rischia di renderci tutti sordi, assuefatti. Un vedere che ci sta accecando. Sai, l’impegno civile oggi tende ad assumere forme tipiche del tifo da stadio: devi parteggiare per una delle due squadre. È quanto avviene sui social network. Ormai ci dicono per cosa indignarci, quale causa sostenere. Il pericolo che oggi corrono le vittime è di parteggiare per i loro stessi carnefici. Come se i briganti avessero sostenuto i piemontesi o i partigiani si fossero schierati al fianco dei nazifascisti. C’è un canto intitolato  ‘vilipendio alle parole’, in cui denuncio l’uso improprio che si fa della lingua. Heidegger sosteneva che “non siamo noi a parlare, ma è il linguaggio che ci parla”. Se non spezzeremo  queste catene, difficilmente libereremo le coscienze dalle troppe schiavitù del nostro tempo. Quindi è necessario bonificare il nostro sentire, il nostro vedere, il nostro parlare, prima di attivarsi per fronteggiare le complesse minacce del nostro tempo.  Lo diceva Russell, lo diceva Cassola, l’hanno ribadito in tanti nel secolo scorso e, con la mia opera, cerco di farmi megafono di questo assioma: il mondo, nella storia, è sempre stato governato dalla stupidità, ma anche i problemi erano tali; oggi, di fronte alle questioni complesse e delicate, che minacciano più che il pianeta chi vi abita – inquinamento, riscaldamento, risorse che scarseggiano e un’esponenziale crescita demografica e multietnica, queste solo le più urgenti – non ci possiamo più permettere la stupidità al governo né tantomeno cittadini stolti e scriteriati, indifferenti a quelle che sono le problematiche globali.  Inoltre è opportuno trovare insieme le risposte, non possiamo più delegare, aspettare, com’è avvenuto, l’intervento di un deus ex machina. Non sarà un superuomo a salvarci ma una superumanità. Non a caso il titolo dell’opera è ripreso da un verso di Rilke, da un suo sonetto a Orfeo, “Gesang ist Dasein”, “Canto è esistenza”, è esser-ci, è uno stare-qui-ora-insieme, pertanto la nuova   [R]Esistenza, cui siamo chiamati, è e sarà un canto corale, di popoli e d’individui, nessuno escluso. E non ci saranno direttori d’orchestra, dovremmo essere bravi ad autodisciplinarci. Il mio testo, non a caso, s’ispira a un passo de La Nascita della tragedia di Nietzsche:   “Cantando e danzando, l’uomo si mostra come membro d’una superiore comunità: ha disimparato il camminare e il parlare ed è sulla via di volarsene in cielo danzando [e cantando]”. In  futuro, ma già a partire dal nostro presente, l’umanità avrà bisogno di talento e disciplina per ritrovare l’armonia perduta, sia in società sia in Natura. Come diceva Aristotele, l’uomo è un animale-politico, siamo animali-sociali, pertanto non dimentichiamoci che prima di essere ‘politico’, cittadini del mondo, siamo e restiamo, con tutte le responsabilità che ne derivano, degli animali.

Grazie Gerardo, per questa bellissima intervista, speriamo di continuare a leggere le tue opere per molti anni ancora. 

Grazie a voi, è stato un immenso piacere, spero di poter tornare presto ai vostri microfoni.

Francesco Martini