Onmic PTCO – Le guerre dimenticate: un silenzio assordante

Quella che può sembrare un’improvvisa escalation di violenza è in realtà l’ennesimo capitolo di una guerra che dura da troppi anni

e che ha origini lontanissime. Gli abitanti del Nagorno Karabakh non ricordano più cosa sia la pace, paralizzati in un perenne stato di tensione che a volte esplode, altre ribolle in attesa di una nuova scintilla.

Le ragioni del conflitto contemporaneo sul Nagorno Karabakh affondano le radici negli anni a cavallo della prima guerra mondiale, nel periodo in cui il popolo armeno subì per mano turca il primo genocidio del ’900 con un milione e mezzo di morti. La crisi è esplosa nel periodo della transizione post sovietica. All’indomani della proclamazione dell’indipendenza dell’Azerbaijan, a sua volta il Nagorno Karabakh si proclamò indipendente. Una proclamazione mai accettata dall’Azerbaijan. Che infatti aggredì militarmente la piccola repubblica. Una guerra feroce che dal 1992 al 1994 si stima causò più di 30mila vittime e 80mila feriti. E che si concluse con l’accordo di Biškek che prevedeva il mantenimento dell’indipendenza per il Nagorno Karabakh, congelando il conflitto. Sullo sfondo delle rivendicazioni territoriali e delle aspirazioni nazionalitarie si muovono le potenze militari della zona, la Russia alleata dell’Armenia e la Turchia dell’Azerbaijan. Condizione che, in chiave geopolitica, si spiega con la posizione del Karabakh, strategica per il controllo dei gasdotti e oleodotti che transitano nella regione e approvvigionano idrocarburi per il mercato turco ed europeo.

L’aspetto più importante per la risoluzione del conflitto è lo status e la condotta dell’Artsakh stesso. L’Azerbaigian giudica quest’entità statale non riconosciuta come un territorio occupato e dunque lo rappresenta come un conflitto unicamente tra l’Armenia e l’Azerbaigian.

Perché vi sia una pace duratura l’Azerbaigian deve riconoscere all’Artsakh il diritto alla libertà e ad una propria condotta autonoma perché il conflitto non riguarda un territorio, ma la libertà e l’indipendenza di un popolo che ha vissuto in una particolare zona del mondo per migliaia di anni prima della decisione fatale presa da Stalin di mettere la regione del Nagorno-Karabakh sotto il controllo dell’Azerbaigian.

La questione principale è quello che si potrebbe chiamare “il silenzio assordante” delle potenze occidentali, gli Stati Uniti e l’Unione Europea, su questo conflitto attualmente in corso. Come previsto, questi stessi Paesi hanno chiesto un cessate il fuoco. Eppure non sono intervenuti più di tanto sulla questione, soprattutto su che cosa si potrebbe fare per fermare il conflitto e come risolvere questa problematica una volta per tutte.

In questi mesi di pandemia è passata quasi inosservata la gravità del conflitto. Le notizie sono state relegate in coda ai tg e condensate in poche righe sui giornali. Eppure dal 27 settembre al 10 novembre ci sono stati scontri armati, colpi di artiglieria e bombardamenti sui civili. E un conteggio delle vittime ancora da definire.

L’Unione Europea deve decidere cosa vuole fare. Il Nagorno Karabakh è il confine più prossimo d’Europa, e Armenia e Azerbaijan fanno parte del consiglio europeo. Quando nel 2008 il Kosovo dichiarò la propria indipendenza dalla Serbia, in breve tempo moltissimi stati europei, fra cui l’Italia, riconobbero tale stato. Un precedente importante a livello internazionale, dove la secessione attuata dal principio dell’autodeterminazione di un popolo ha avuto la meglio sull’integrità territoriale di uno Stato, in questo caso della Serbia.

Ma il Kosovo non è il Nagorno-Karabakh. Gli interessi geopolitici in qualche maniera sono stati il vero motivo dei numerosi riconoscimenti internazionali. L’appello per il riconoscimento dello stato d’Artsakh deve passare attraverso questo precedente kosovaro. E deve smascherare i due pesi e le due misure attuate. Se il principio dell’autodeterminazione dei popoli e della secessione per la salvezza di un’etnia è un valore importante per la democrazia occidentale, deve esserlo in ogni caso, a prescindere dagli interessi in gioco. Politica ed economia non possono prevalere sul benessere, sui diritti e sulla dignità della popolazione.

Dopo la firma dell’ennesimo cessate il fuoco possiamo affermare che la guerra è quantomeno sospesa. Ma sono ancora in corso tensioni che si protrarranno probabilmente per diversi anni. L’Azerbaijan ha bombardato, spesso con armi vietate dal diritto internazionale, per quasi due mesi la capitale Stepanakert e molti altri insediamenti, attaccando con il fosforo bianco e avvalendosi di migliaia di terroristi jiadisti mercenari trasportati direttamente dalla Siria per conto della Turchia.

Un vero e proprio sistema di terrore che si è scatenato sulla pacifica popolazione del Nagorno-Karabakh da un giorno all’altro, ma con una evidente lunga pianificazione. Da questa premessa è chiaro che ad oggi ogni infrastruttura civile è danneggiata o completamente distrutta. Scuole, ospedali, maternità, sedi di protezione civile fuori uso.

L’accordo di cessate il fuoco, firmato dal presidente russo, dal presidente azero e dal primo ministro armeno, prevede il trasferimento di una grande parte di territorio dalla repubblica d’Artsakh all’Azerbaijan. Tali territori sono popolati da armeni costretti ora ad abbandonare le proprie case. Lo scenario è quello di intere comunità che raccolgono tutto ciò che possono dalle proprie abitazioni. Poi, per non lasciare il frutto di una vita di fatiche al nemico, danno fuoco alle proprie case. Sono giorni tristi, che tolgono il fiato.

Una tragedia di cui si è parlato troppo poco. Una popolazione in ginocchio di cui la maggior parte degli italiani, o forse degli europei, non è a conoscenza. Fatti che non ci toccano direttamente, ma che dovrebbero interessarci come cittadini del mondo. Dovremmo tenere bene a mente che quello che oggi capita altrove, domani potrebbe capitare nella nostra città.

Come ci sentiremmo noi ad essere cacciati dalle nostre case? Che proveremmo se fossimo costretti a dare fuoco alle nostre abitazioni? Come se non bastasse, aggiungiamo a tutto questo la totale indifferenza del resto del mondo. Pronto ad intervenire solo per interessi economici o politici. Come se la popolazione non fosse altro che una pila di banconote.

Siamo sempre pronti ad intervenire per resoconti personali, ma tante tragedie si potrebbero evitare, o quantomeno affievolire, se fossimo disponibili al prossimo per il semplice gusto di scegliere la cosa giusta. Non sarebbe un mondo nettamente migliore se l’interesse più importante, anche solamente per una volta, fosse quello sociale piuttosto che quello economico o politico?

Chiara Grieco